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Per onorare l’illustre ed inatteso ospite, il Faraone offrì un
banchetto che raccolse intorno a tavole riccamente imbandite ed ornate di
ghirlande di fiori la rappresentanza
più nobile di una corte disciplinata ed allineata secondo il rigido protocollo.
Avvenenti ragazze offrivano ai convitati profumi e fiori di loto e il
Faraone, che aveva preso posto su un grosso scanno alla testa del tavolo, aprì il banchetto alzando la coppa.
Accanto a lui sedeva la Grande Consorte Reale. Seguivano le altre
Regine e le principesse in ordine di grado; la principessa Nefer venne a
trovarsi accanto alla regina Amesh e di fronte al principe Thotmosis.
Nefer lo guardava di sottecchi, ma con insistenza. Aveva udito molti racconti sui Popoli di Mare e le loro strane abitudini. Ora, per la prima volta, ne vedeva da vicino non uno, bensì due persone di quel popolo, poiché con lui c’era la donna la cui bellezza, si diceva nel gineceo di Tebe, aveva scatenato una guerra: Elena, Regina di Sparta.
Nefer guardava anche lei, ma con aria disincantata ed occhi sgomenti:
era bellissima. La donna più bella che avesse mai visto.
La Regina di Sparta aveva forme perfette, pelle luminosa, occhi
brillanti e capelli di vivido oro.
Molte donne, si disse la ragazza, possedevano quegli stessi pregi, ma
nessun’altra donna da lei conosciuta aveva quel fascino particolare che emanava
dalla persona, dallo sguardo, dal sorriso e che attirava su di lei ogni
sguardo.
“Una bellezza che soggioga gli uomini e li rende rivali – si sorprese a
pensare – è una bellezza pericolosa!”
Non sapeva se le storie udite sul suo conto che Laria, la sua schiava
cretese, amava colorire di molti particolari, fossero vere oppure leggende.
Merende, la sua nutrice, che era una donna piena di saggezza, diceva
che in ogni leggenda si nasconde sempre un fondo di verità.
Laria aveva raccontato di un principe troiano di nome Paride a cui tre
Dee straniere avevano chiesto di giudicare chi tra loro fosse la più bella,
promettendogli in cambio doni favolosi; Paride aveva scelto il dono della Dea
dell’Amore e cioè l’amore della donna più bella del mondo: Elena, Regina di
Sparta, già moglie di Menelao, principe di Micene.
Quella scelta, però, s’era rivelata infelice e sciagurata poiché aveva
trascinato in una lunghissima guerra contro Troia, risoltasi con la caduta
della città, molti dei Re della terra.
Nefer non era ancora nata quando quegli avvenimenti avevano avuto
inizio, ma poteva costatare quanto dolorose fossero ancora, per i protagonisti,
le conseguenze.
Lei non poteva né voleva giudicare quegli eventi poiché appartenevano
ad altre genti, di altre terre, che seguivano altre consuetudini ed adoravano
altri Dei, ma… una donna che tradiva il proprio marito, dopo averlo fatto Re,
per seguire un altro uomo…
Come richiamata dal suo sguardo, la regina Elena si voltò verso di lei.
Le puntò addosso uno sguardo lucente, trasparente, luminoso, che ricordava
acque azzurre attraversate da brezze, raggi splendenti… Nefer si sforzò di non
provare pietà per quella donna, ma qualcosa dentro di sé, estranea alla sua
volontà, la conduceva verso di lei.
Gli Dei! Pensò. La colpa era tutta degli Dei.
Gli Dei! Pensò. La colpa era tutta degli Dei.
Brutto affare ingelosire una Divinità… ma anche gli uomini, sempre in
cerca di gloria, di avventure, di bottini. Uomini che…
L’ingresso di un gruppo di cantori e musicisti interruppe i suoi
pensieri. L’arpista era già in attesa e un giovane, avvenente cantore cominciò
il suo canto accompagnandosi con le note di un liuto.
“Gettate alle spalle crucci
e pene,
volgete l’animo alla gioia
–cantava-
finché si leverà il giorno
in cui
dovremo viaggiare verso
la
Terra-che-ama-il-silenzio…”
La musica era dolce e le danzatrici si muovevano con grande grazia.
L’attenzione di tutti, però, non era per loro, ma per il Re di Sparta, che il
Faraone aveva invitato a prendere la parola.
Re Menelao cominciò a raccontare. Narrò delle peripezie che lo avevano
trascinato per mare con i compagni fino a sospingerlo verso la terra d’Egitto.
“La mia storia è intessuta di dolori e sciagure – cominciò– La collera
del Tonante Zeus ha spinto fin qui me, la mia sposa e i pochi compagni che mi
rimangono e più nulla del ricco bottino
depredato a Troia…”
Era noto dappertutto, anche in Egitto, l’inganno ordito da un astuto
guerriero di nome Odisseo e del suo grande cavallo di legno spacciato per
sacrificio offerto ad un Dio di nome Poseidone.
Re Menelao parlava, parlava, parlava e sciacquava le parole con piccoli
sorsi di un corposo vino proveniente dalle vigne del tempio dio Ammon,
annacquato ed aromatizzato, contenuto nella coppa d’oro che gli stava davanti.
Narrò della caduta di Troia, dell’ultimo assalto degli Achei e della loro
partenza carichi di bottino. Molti di loro, disse, come Agamennone, Odisseo ed egli stesso, avevano
dimenticato di placare con sacrifici l’ira degli Dei di Troia. Soprattutto
l’ira di Atena, corrucciata con gli Achei, spiegò, perché sotto il suo altare,
il guerriero Aiace aveva violato Cassandra,
figlia di re Priamo e sacerdotessa della Dea.
L’immagine della Dea, disse con voce rotta dall’emozione, aveva distolto lo sguardo con orrore dalla scena di violenza.
L’immagine della Dea, disse con voce rotta dall’emozione, aveva distolto lo sguardo con orrore dalla scena di violenza.
Mentre Menelao parlava, la regina Elena piangeva e nel silenzio
profondo si udivano soltanto le parole dell’Acheo e i singhiozzi della regina
di Sparta.
Il volto commosso e impietosito da tanta tragedia, la principessa Nefer
non si accorse di piangere lei pure, se non quando, un rivoletto di lacrime le
inondò la guancia. Piangeva il destino di tutte le donne che quella guerra
aveva ferito: Cassandra vittima della cieca violenza di un guerriero vincitore,
Andromaca, madre e sposa sfortunata, Ecuba, madre infelice, Enone, sposa
abbandonata. Piangeva per tutte le donne vittime di quella e di altre guerre e
piangeva anche per Elena e il suo destino di donna troppo bella. Piangeva per
lei e con lei ed intanto Menelao continuava a raccontare, dosando parole e
tempi con grande lentezza, quasi che ognuna di quelle parole gli costasse fatica
e dolore; parlava con essenzialità e senza l’uso di parole superflue, come si
faceva invece a Tebe, dove la consuetudine di parlare era diventata un uso ed
abuso di parole inutili che allungavano le frasi e le rendevano deboli e spesso
incomprensibili.
Questo rendeva il racconto dell’ospite ancora più drammatico e le sue
lacrime e quelle della regina Elena, sempre più copiose.(continua)
brano tratto dal libro "OSORKON - Il Guardiano della Soglia"
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