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C’era il giovane Amenemhat alla guida del gruppo e
con passo sicuro lo stava conducendo verso una sala ipostila. A cielo aperto.
Il ragazzo avanzava spedito, ma ogni tanto si
voltava,
con sguardo
di affettuosa sollecitudine in direzione del suo maestro per assicurarsi che
stesse al passo. Il vecchio, però, procedeva veloce, rivelando insospettate doti
di agilità nonostante la voluminosa mole che si portava dietro.
o.
o.
Amenemhat aveva quattordici anni; non molto alto,
ma agile e snello. Il portamento era elegante: di nobile stirpe, si sarebbe
detto e il volto era di una bellezza insolita in terra d’Egitto: delicata e
quasi femminea. La pelle era chiara, là dove il sole non l’aveva scurita e gli
occhi erano di un indefinibile verde. Le orecchie a conchiglia, il mento
arrotondato e il naso affilato conferivano al suo volto nel loro insieme una
vaga somiglianza con i profili tracciati in certe anfore di provenienza
mitanne.
Ma nessuna di quelle caratteristiche lo rendeva
diverso dagli altri ragazzi quanto la sua capigliatura lunga, folta e di un
biondo fiammeggiante.
Amenemhat era un trovatello, sicuramente straniero,
abbandonato tra le colonne del tempio del faraone Amenemhat III, in onore del
quale gli era stato dato il nome che portava: un nome reale per un ragazzo
speciale.
Accadeva spesso che trovatelli rinvenuti nelle
corti dei Templi fossero allevati come servi o conseguissero i gradi inferiori
di sacerdozio. Lo scriba reale SetepenRa lo aveva trovato lui personalmente, durante una cerimonia di
commemorazione in onore del celebre Faraone della XIII Dinastia e lo aveva
portato con sé al Tempio di Thot, dove lo aveva affidato alle cure delle donne.
Qui il bimbo era stato allevato e qui stava conducendo con strabilianti
profitti gli studi di scriba. Il vecchio sacerdote si era sinceramente
affezionato al ragazzo e pensava seriamente di adottarlo come figlio e di farsi
succedere nella professione.
Quella dello scriba era la professione più ambita
dalla popolazione dell’Antico Egitto. I compiti erano dei più svariati:
verificare la posizione dei confini dei campi dopo le inondazioni, annotare i
risultati dei raccolti per calcolarne le imposte, redigere atti giudiziari e
notarili e occuparsi di tante altre cose ancora.
Benché come altre professioni anche quella dello
scriba venisse tramandata da padre in figlio, chiunque, avendone le capacità
necessarie, poteva diventare scriba.
Alla Casa della Vita, le scuole dei
templi di Thot, dove si conseguiva un ciclo di studi di non meno di dieci anni,
erano in molti quelli che andavano a bussare, ma solo in pochi riuscivano a
farsi ammettere: la selezione era ferrea, però, meritoria. Il lavoro successivo
era anche più severo e non raramente accompagnato da punizioni corporali.
Durante il periodo di studio gli allievi dovevano
copiare e ricopiare frasi, sentenze e calcoli, utilizzando frammenti di legno o
di ceramica: gli ostraka, come li ribattezzeranno più tardi i Greci. Il papiro,
materiale fragile e prezioso, ma anche assai costoso, che gli egizi chiamavano Ouadj,
ossia Vigore, veniva usato solo al termine dell’apprendistato.
Lasciata l’ultima saletta, il gruppo raggiunse il
cuore del Santuario, la parte più intima, dov’era custodita l’effigie del
Dio. Luogo inviolabile e precluso ai
più.
Appena, però, lo scriba reale ebbe aperto la porta
di quella stanza recondita e sacra, il giovane Ankheren frenò d’istinto la
propria corsa, evitando di guardare all’interno, dove c’era il Naos,
il Tabernacolo, che custodiva l’effigie di Ammon.
Si intravedeva appena, nascosta in una fitta selva
di veli e in una penombra sapientemente rischiarata dal fuoco di un minuscolo
tripode.
“Presto. - lo sollecitò lo scriba reale – Non
indugiare, ragazzo.”
“Ma… io non posso mettere piede in questo posto
sacro… Mi pare già di sentire Kebhesnuf affilare i suoi artigli di Sacro
Sparviero e Anubi rizzare le sue orecchie di Sciacallo Divino…”
“Anubi e Khebesnuf sono amici dei Giusti. – lo
rassicurò lo scriba – Seguici senza timori.”
“Lo sapranno, Anubi e Khebesnuf – il figlio di
Mursil l’Ittita non sembrava troppo convinto – che noi non abbiamo intenzione
di profanare questo luogo sacro? Lo sapranno, eh?…”
“Abbi fede, ragazzo. – lo rincuorò SetepenRa – Gli
Immortali conoscono bene il cuore degli uomini. Non temere.”
Vinte, non senza qualche riserva, le ultime
reticenze, il ragazzo seguì gli altri e varcò la soglia di quel posto proibito.
Passando accanto al tabernacolo lo scriba reale
staccò dal Fuoco Sacro una fascina in fiamme e con quella fece luce; la fiamma
illuminò la parete in fondo al vestibolo, quasi interamente occupata da una
grande pittura muraria che mostrava il Faraone nell’atto di offrire doni ad
alcune Divinità.
Per arrivarci dovettero attraversare un’infilata di
colonne di grande imponenza.
Amenemhat si fermò ai piedi della terza colonna
dell’ultima fila: il Papiro Vivente.
Quella colonna, mimetizzata da una delle
decorazioni di cui il fusto era interamente coperto, celava uno dei segreti del
Tempio: un’apertura da cui partiva un passaggio che si aprì non appena il
vecchio scriba ebbe toccato una levetta.
L’apertura mostrò l’esistenza di un vano.
Attraversarono quel passaggio e appena dentro, lo
scriba si richiuse accuratamente la porticina alle spalle; staccò una torcia
attaccata ad un anello infisso nella parete e l’accese con il fuoco della
fascina che aveva in mano. Immediatamente dopo una bella fiammata rischiarò
l’ambiente.
Era umido, stretto ed angusto ed era l’accesso ad
un cunicolo che portava in basso nelle fondamenta del Tempio. Da qui partiva un
tratto lungo e tortuoso che parve interminabile: stretto, buio e impraticabile,
sprofondava per metri sotto terra.
Ostacolati da pietre sporgenti dalle volte e dalle
pareti, inciampando contro i sassi del pavimento terroso, il gruppo avanzava a
fatica.
Mano a mano che procedevano, nel più assoluto
silenzio e come storditi da quell’aria fetida, malsana e assai vicina al tanfo,
pareva loro di avvertire un disagio sempre più simile all’inquietudine.
La principessa Nefer inciampò in una sporgenza,
Xanto la sorresse ed Ankheren, alle loro spalle, non riuscì a trattenere
un’imprecazione.
“Siamo vicini all’uscita.” li rincuorò il giovane
Amenemhat, che mostrava di conoscere bene quel passaggio.
“.. e lontano da ogni pericolo. – aggiunse lo
scriba – Pochi conoscono questo passaggio. Fu fatto costruire da Amenemone,
Direttore dei Lavori Regi del Faraone Ramseth, - spiegò – affinché il Ka
del Faraone potesse liberamente lasciare la sua dimora eterna e andare a
cacciare da solo i leoni fra queste montagne.”
Appena fuori, tornati all’aria aperta, si trovarono
in mezzo alle rocce e con un sole che
picchiava così forte da frantumarle: al confronto dell’asfissiante
calura che avevano appena lasciato,
quell’aria rovente parve dolce come un’arietta di oasi verdeggiante.
“Uhhh! – esclamò Xanto – Finalmente all’aria
aperta.”
“Qui le nostre strade si dividono. – il vecchio
prete riprese la parola – Amenemhat, però, verrà con voi.”
La valle, davanti a loro si estendeva assolata e
senza un filo d’ombra; tutto era giallo e sbiadito. L’orizzonte era occupato da
fosche colline e monti arroventati; alle spalle si apriva la gola attraverso
cui si accedeva alla Set Maat o Sede della Verità,
che i posteri chiameranno Valle dei Re e ad oriente
spaziava, a perdita d’occhio, la distesa del deserto.
Faceva caldo: Horo, laggiù, non era amico né
alleato dell’uomo.
“Tre giorni sono lunghi da passare se si hanno
nemici che calpestano la tua ombra e sei un fuggiasco.” esordì Osor, il sacerdote di Bes, che per
tutto il percorso non aveva fatto sentire la sua voce.
“Cercheremo un rifugio dove aspettare che il
battello con il carico per il cantiere del nuovo palazzo del Faraone a
Pi-Ramesse sia pronto a partire.” spiegò Amenemhat.
“Dove andremo?” chiese il principe Thotmosis.
“Due ore di cammino ci porteranno all’oasi di Hibis.” rispose l’allievo di Thot.
(continua)
brano tratto da OSORKON - Il Sigillo del Faraone
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