giovedì 5 marzo 2015

IL PAPIRO-VIVENTE


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C’era il giovane Amenemhat alla guida del gruppo e con passo sicuro lo stava conducendo verso una sala ipostila. A cielo aperto.
Il ragazzo avanzava spedito, ma ogni tanto si voltava,
 con sguardo di affettuosa sollecitudine in direzione del suo maestro per assicurarsi che stesse al passo. Il vecchio, però, procedeva veloce, rivelando insospettate doti di agilità nonostante la voluminosa mole che si portava dietro.

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Amenemhat aveva quattordici anni; non molto alto, ma agile e snello. Il portamento era elegante: di nobile stirpe, si sarebbe detto e il volto era di una bellezza insolita in terra d’Egitto: delicata e quasi femminea. La pelle era chiara, là dove il sole non l’aveva scurita e gli occhi erano di un indefinibile verde. Le orecchie a conchiglia, il mento arrotondato e il naso affilato conferivano al suo volto nel loro insieme una vaga somiglianza con i profili tracciati in certe anfore di provenienza mitanne.
Ma nessuna di quelle caratteristiche lo rendeva diverso dagli altri ragazzi quanto la sua capigliatura lunga, folta e di un biondo fiammeggiante.
Amenemhat era un trovatello, sicuramente straniero, abbandonato tra le colonne del tempio del faraone Amenemhat III, in onore del quale gli era stato dato il nome che portava: un nome reale per un ragazzo speciale.
Accadeva spesso che trovatelli rinvenuti nelle corti dei Templi fossero allevati come servi o conseguissero i gradi inferiori di sacerdozio. Lo scriba reale SetepenRa lo aveva trovato lui  personalmente, durante una cerimonia di commemorazione in onore del celebre Faraone della XIII Dinastia e lo aveva portato con sé al Tempio di Thot, dove lo aveva affidato alle cure delle donne. Qui il bimbo era stato allevato e qui stava conducendo con strabilianti profitti gli studi di scriba. Il vecchio sacerdote si era sinceramente affezionato al ragazzo e pensava seriamente di adottarlo come figlio e di farsi succedere nella professione.
Quella dello scriba era la professione più ambita dalla popolazione dell’Antico Egitto. I compiti erano dei più svariati: verificare la posizione dei confini dei campi dopo le inondazioni, annotare i risultati dei raccolti per calcolarne le imposte, redigere atti giudiziari e notarili e occuparsi di tante altre cose ancora.
Benché come altre professioni anche quella dello scriba venisse tramandata da padre in figlio, chiunque, avendone le capacità necessarie, poteva diventare scriba.
Alla Casa della Vita, le scuole dei templi di Thot, dove si conseguiva un ciclo di studi di non meno di dieci anni, erano in molti quelli che andavano a bussare, ma solo in pochi riuscivano a farsi ammettere: la selezione era ferrea, però, meritoria. Il lavoro successivo era anche più severo e non raramente accompagnato da punizioni corporali.
Durante il periodo di studio gli allievi dovevano copiare e ricopiare frasi, sentenze e calcoli, utilizzando frammenti di legno o di ceramica: gli ostraka, come li ribattezzeranno più tardi i Greci. Il papiro, materiale fragile e prezioso, ma anche assai costoso, che gli egizi chiamavano Ouadj, ossia Vigore, veniva usato solo al termine dell’apprendistato.

Lasciata l’ultima saletta, il gruppo raggiunse il cuore del Santuario, la parte più intima, dov’era custodita l’effigie del Dio.  Luogo inviolabile e precluso ai più.
Appena, però, lo scriba reale ebbe aperto la porta di quella stanza recondita e sacra, il giovane Ankheren frenò d’istinto la propria corsa, evitando di guardare all’interno,  dove c’era il Naos,  il Tabernacolo, che custodiva l’effigie di Ammon.
Si intravedeva appena, nascosta in una fitta selva di veli e in una penombra sapientemente rischiarata dal fuoco di un minuscolo tripode.
“Presto. - lo sollecitò lo scriba reale – Non indugiare, ragazzo.”
“Ma… io non posso mettere piede in questo posto sacro… Mi pare già di sentire Kebhesnuf affilare i suoi artigli di Sacro Sparviero e Anubi rizzare le sue orecchie di Sciacallo Divino…”
“Anubi e Khebesnuf sono amici dei Giusti. – lo rassicurò lo scriba – Seguici senza timori.”
“Lo sapranno, Anubi e Khebesnuf – il figlio di Mursil l’Ittita non sembrava troppo convinto – che noi non abbiamo intenzione di profanare questo luogo sacro? Lo sapranno, eh?…”
“Abbi fede, ragazzo. – lo rincuorò SetepenRa – Gli Immortali conoscono bene il cuore degli uomini. Non temere.”
Vinte, non senza qualche riserva, le ultime reticenze, il ragazzo seguì gli altri e varcò la soglia di quel posto proibito.

Passando accanto al tabernacolo lo scriba reale staccò dal Fuoco Sacro una fascina in fiamme e con quella fece luce; la fiamma illuminò la parete in fondo al vestibolo, quasi interamente occupata da una grande pittura muraria che mostrava il Faraone nell’atto di offrire doni ad alcune Divinità.
Per arrivarci dovettero attraversare un’infilata di colonne di grande imponenza.




Amenemhat si fermò ai piedi della terza colonna dell’ultima fila: il Papiro Vivente.
Quella colonna, mimetizzata da una delle decorazioni di cui il fusto era interamente coperto, celava uno dei segreti del Tempio: un’apertura da cui partiva un passaggio che si aprì non appena il vecchio scriba ebbe toccato una levetta.
L’apertura mostrò l’esistenza di un vano.
Attraversarono quel passaggio e appena dentro, lo scriba si richiuse accuratamente la porticina alle spalle; staccò una torcia attaccata ad un anello infisso nella parete e l’accese con il fuoco della fascina che aveva in mano. Immediatamente dopo una bella fiammata rischiarò l’ambiente.
Era umido, stretto ed angusto ed era l’accesso ad un cunicolo che portava in basso nelle fondamenta del Tempio. Da qui partiva un tratto lungo e tortuoso che parve interminabile: stretto, buio e impraticabile, sprofondava per metri sotto terra.
Ostacolati da pietre sporgenti dalle volte e dalle pareti, inciampando contro i sassi del pavimento terroso, il gruppo avanzava a fatica.
Mano a mano che procedevano, nel più assoluto silenzio e come storditi da quell’aria fetida, malsana e assai vicina al tanfo, pareva loro di avvertire un disagio sempre più simile all’inquietudine.
La principessa Nefer inciampò in una sporgenza, Xanto la sorresse ed Ankheren, alle loro spalle, non riuscì a trattenere un’imprecazione.
“Siamo vicini all’uscita.” li rincuorò il giovane Amenemhat, che mostrava di conoscere bene quel passaggio.
“.. e lontano da ogni pericolo. – aggiunse lo scriba – Pochi conoscono questo passaggio. Fu fatto costruire da Amenemone, Direttore dei Lavori Regi del Faraone Ramseth, - spiegò – affinché il Ka del Faraone potesse liberamente lasciare la sua dimora eterna e andare a cacciare da solo i leoni fra queste montagne.”
Appena fuori, tornati all’aria aperta, si trovarono in mezzo alle rocce e con un sole che  picchiava così forte da frantumarle: al confronto dell’asfissiante calura che avevano appena lasciato,  quell’aria rovente parve dolce come un’arietta di oasi verdeggiante.
“Uhhh! – esclamò Xanto – Finalmente all’aria aperta.”
“Qui le nostre strade si dividono. – il vecchio prete riprese la parola – Amenemhat, però, verrà con voi.”

La valle, davanti a loro si estendeva assolata e senza un filo d’ombra; tutto era giallo e sbiadito. L’orizzonte era occupato da fosche colline e monti arroventati; alle spalle si apriva la gola attraverso cui si accedeva alla Set Maat  o Sede della Verità, che i posteri chiameranno Valle dei Re e ad oriente spaziava, a perdita d’occhio, la distesa del deserto.
Faceva caldo: Horo, laggiù, non era amico né alleato dell’uomo.
“Tre giorni sono lunghi da passare se si hanno nemici che calpestano la tua ombra e sei un fuggiasco.”  esordì Osor, il sacerdote di Bes, che per tutto il percorso non aveva fatto sentire la sua voce.
“Cercheremo un rifugio dove aspettare che il battello con il carico per il cantiere del nuovo palazzo del Faraone a Pi-Ramesse sia pronto a partire.” spiegò Amenemhat.
“Dove andremo?” chiese il principe Thotmosis.

“Due ore di cammino ci  porteranno all’oasi di Hibis.” rispose l’allievo di Thot.

(continua)

brano tratto da  OSORKON - Il Sigillo del Faraone
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